Coaching: confusione e abuso del termine

Coaching: confusione e abuso del termine…
Da quando la parola coaching è apparsa nel panorama delle consulenze personali e d’impresa sembra aver eroso a poco a poco (nella fantasia degli addetti ai lavori, in primis) molte aree di intervento tradizionali e precedentemente accreditate.
Oggi parlare di formazione in aula sembra quasi come volersi tingere i capelli di grigio a 20 anni…
L’abuso del termine COACHING ha generato ormai la convinzione comune che, coaching, sia la traduzione inglese del termine “formazione”!

Non voglio addentrarmi nei motivi origine di questo abuso, perchè dovrei essere estremamente “duro e tagliente” nel descrivere modalità di pensiero tipiche della nostra società, ma ancor più della categoria professionale a cui appartengo! desidero solo sottolineare che le competenze e le metodologie del “coach” sono talmente diverse da quelle della formazione che talvolta risultano incompatibili con quelle del “formatore d’aula”.
Esorto quindi a riflettere ed informarsi prima di “credere” pienamente a ciò che ci viene proposto. Se per un esperto di coaching è immediato cogliere la differenza, non è detto che lo sia per chi il coaching e le sue metodologie, magari non le ha mai vissute…

In linea di principio, c’è un metodo infallibile per capire quando un intervento di crescita personale, a cui ci viene proposto di partecipare, NON ha nulla a che fare con il Coaching! È quando:
A> l’intervento apporta delle nozioni.. NB. nel coaching non si impara nulla di razionale.
B> quando l’autore dell’intervento (sia esso in realtà un formatore, mentore, ecc. ecc.) parla più di quanto parlate voi… NB. Nel coaching autentico il coach parla dal 20 al 30% di quanto parla il coachee.
C> quando l’autore dell’intervento non Vi sa ascoltare veramente! NB. Un bravo coach DEVE possedere almeno una grande dote, il saper ascoltare.

Bene! per non tirarla troppo lunga, consiglio a tutti di leggere un libricino piccolo, simpaticissimo e sagace: “STUPIDITA’ E FORMAZIONE” di Massimo Bellotto, guerini NEXT – il testo è il 37esimo della Collana dell’Associazione Italiana per la Direzione del Personale

Coaching: confusione e abuso del termine
Foto del libro Stupidità e formazione

Un saluto Paolo Vendramini.

Quanto e quando fa bene ridere?

Oggi c’è grande fermento su questo tema, psicologi e fisiologi sono impegnati nello studio della fenomenologia della risata e si danno un gran da fare per dimostrare nuove teorie relative alle conseguenze dell’umorismo su aspetti della vita più disparati.

L’assunto che comicità ed umorismo siano risorse utili è comunque assodato da lungo tempo: tramite il senso dell’umorismo, in generale, possiamo dire che “diventa possibile attuare una costante rielaborazione degli accadimenti, rivalutandone parallelamente le relative emozioni”.
Essendo “l’uomo al lavoro” il mondo a cui mi dedico ogni giorno, ho voluto approfondire alcuni temi e distinguere dalle “mode del momento” quanto effettivamente c’è di vero ed importante da sapere “sull’umorismo in ufficio”…
UNA DEFINIZIONE DI UMORISMO:
L’umorismo si distingue sia intellettualmente che emotivamente da ogni altro tipo di comicità in quanto richiede un grande lavoro psichico e mentale.
In generale possiamo notare che all’interno di un gruppo, l’uso dell’umorismo può facilitare un clima gradevole e un’allegria d’animo tale da rendere l’ambiente maggiormente produttivo perchè in grado di scaricare le tensioni. Ridere non è d’altro canto sempre un fattore positivo… In effetti si dice che “non tutti siamo dotati di senso dell’umorismo” e qualcosa di vero c’è… chi non è in grado di fare dell’umorismo, spesso usa l’ironia che però, può talvolta risultare inopportuna o esagerata, sino ad arrivare ad essere aggressiva…
L’umorismo quindi va distinto dall’ironia, e tanto meno confuso con il sarcasmo. Se il primo è tipico delle menti sottili ed allenate a pensare, l’ironia è già una questione più “alla portata di tutti” e spesso scontata, tende a mostrare la realtà in maniera leggermente distorta, esagerandone qualche aspetto che “crea una caricatura” e conseguentemente diverte e fa sorridere… Il sarcasmo, all’estremo opposto è talvolta originato da sentimenti negativi e spesso è causa di vere e proprie degenerazioni dell’ambiente sociale in cui si manifesta. Chi si adopera per ridicolizzare gli altri in maniera forzata o volgare rende spesso sterili i rapporti umani facendo perde dignità e serietà.
In poche parole, l’importante è “ridere con” e non “ridere di” qualcuno, se non di se stessi.
Lavorare con l’umorismo accanto non è però cosa frequente ne apprezzata da tutti. Forse perché il lavoro, storicamente, è sempre stato concepito, come qualcosa di attinente alla fatica, al peso e all’inevitabilità delle cose. (La terminologia stessa usata in diverse lingue tradisce questa concezione:  in latino labor vuol dire fatica, pena, sforzo; trabajo in spagnolo ha la stessa radice di partorire, mettere al mondo) Tutto ciò sembra avere origini ancora più antiche… la fatica, di biblica memoria (“… con il sudore della tua fronte ti guadagnerai il pane quotidiano…”), rimane in un certo senso “una impronta” mentale che mette qualche dubbio sull’importanza fondamentale dell’allegria al lavoro.
Innanzitutto è necessario ridefinire lo stereotipo che il lavoro sia spesso fatica e sudore. (stando a fianco di imprenditori, manager e professionisti, ho notato spesso per non dire sempre, che le persone con elevati livelli di rendimento lavorativo tendono a percepire nel loro lavoro una certa componente di divertimento, lo definiscono interessante e/o stimolante. C’è sempre qualcosa di piacevole in ciò che fanno) Va da se che chi parte con questi stati d’animo positivi al mattino, troverà anche più facile fare dell’ironia o, se ne è capace, dell’umorismo.
Ma perchè dovrebbe farlo? Che motivi o vantaggi ne può trarre? Ed ecco il secondo passo: consiste nel prendere consapevolezza che, oltre ad essere un’esperienza piacevole e gratificante, l’umorismo svolge anche altre preziose funzioni che tento qui di riassumere:
Alcuni studiosi dicono che il meccanismo fisico della risata sembra originarsi, nel midollo allungato, una regione “antica” del nostro cervello (detta anche cervello «rettile»), che si occupa del controllo di alcune funzioni vitali come la respirazione, il battito cardiaco, la vigilanza, ecc. Come mai, viene spontaneo chiederci: “una funzione “frivola” come la risata, risiede a fianco di numerose funzioni vitali nella parte più antica del nostro cervello?” Bè innanzitutto l’uomo vigila respira, mangia, parla e con gli stessi organi, usando in modo prevalente occhi e bocca per ognuna di queste attività: una probabile spiegazione è che si tratti di un istinto che aiuta a raggrupparsi e a socializzare.
Fin dalle sue origini l’uomo ha impiegato la risata per creare a mantenere i legami profondi e affettivi all’interno della comunità e del nucleo familiare, qualcosa di simile al toccarsi e al prendersi cura gli uni degli altri dei gruppi di primati. Riunirsi, far fronte insieme alle avversità quotidiane fa parte della filogenesi umana. Se poi ci riflettiamo, “il sorriso” è la prima espressione facciale che siamo in grado di esprimere già dopo pochi giorni dalla nascita.
“Linguaggio universale” L’esperienza umoristica consente anche oggi, a qualsiasi latitudine geografica, di provare sensazioni piacevoli, di divertirsi, di scherzare, di svagarsi. Il sorriso è la prima cosa che inconsciamente ci aspettiamo quando incontriamo qualcuno per la prima volta… dal tipo di sorriso che riceviamo nel momento in cui vediamo una persona per la prima volta, traiamo informazioni importantissime e spesso difficilmente modificabili.
C’è poi un ulteriore aspetto, che l’etimologia latina del termine “divertere”, evidenzia: quello del distacco, dell’allontanamento dalla preoccupazione. Una risata ci può consentire, allora, di sperimentare contemporaneamente la riflessione e il divertimento, l’osservazione di un problema e un atteggiamento di distacco, la constatazione di un errore (nostro o altrui) e una reazione indulgente e allegra. A livello mentale, la risata conseguente alla battuta… ha un po’ leffetto del riavviare un programma in un pc… Da questo parallelo possiamo trarre un buon parametro: riavviare continuamente un pc sarebbe oltremodo dispersivo ai fini lavorativi… Ma un riavvio, al giorno è indispensabile per scaricare la RAM giusto?
Quali le differenze tra l’umorismo maschile e quello femminile? In maniera generale e sommaria, non è possibile parlare né di differenze né di mancanza di differenze nel senso dell’umorismo in base al sesso. Alcuni indizi deporrebbero comunque per l’esistenza di una diversità. E’ molto più frequente che siano dei maschi a raccontare barzellette in una compagnia. Ma, dall’altro lato, ci sono attrici comiche che, almeno da qualche tempo, hanno raggiunto popolarità e successo. La questione continua a proporsi come delicata e aperta. Alcune considerazioni: A> le principali diversità possono essere legate a un diverso stile educativo, che rende più o meno probabile che si sviluppi una tendenza, e una capacità, a divertirsi ascoltando o raccontando barzellette, o barzellette di un certo tipo. Tale diversità culturale si riscontra anche all’interno dello stesso sesso, infatti non tutti ridono alla medesima battuta. B> In termini cognitivi questo si traduce in modelli di riferimento differenziati, per cui anche quello che è incongruo o congruente può non essere sovrapponibile tra i sessi. E questo è estendibile anche alla dimensione dinamica: è possibile che il principio della padronanza, della salienza e della sintonia operino in maniera diversa, se e in quanto sono diverse le esperienze emozionali, motivazionali e affettive; C> si può ipotizzare, in base ai punti precedenti, che le differenze nel senso dell’umorismo tendono ad attenuarsi con il ridursi delle differenze negli stili educativi, dei riferimenti culturali, della posizione e del ruolo sociale.
Riorganizzando quanto visto sopra, possiamo individuare alcuni aspetti specifici della “vita aziendale” in cui identificare precisi benefici dovuti ad un clima umano “cordiale e gioviale”
In un piano che chiameremo “relazionale” l’umorismo presenta le seguenti funzioni che prendiamo a “prestito” dal mondo produttivo industriale con le seguenti metafore:
§  Catalizzatore: una battuta divertente contribuisce molto ad instaurare nel gruppo un clima piacevole e disteso, consente di superare l’imbarazzo iniziale, mette i partecipanti a proprio agio, stimola la comunicazione (umoristica e non);
§  Collante: ridere insieme rappresenta secondo alcuni autori, come ad esempio Koller, una sorta di «collante sociale», che rinsalda i legami, sottolinea la condivisione di esperienze e valori comuni, consolida il senso di appartenenza al gruppo.
§  Lubificante: l’impiego dell’umorismo, favorisce l’accettazione reciproca, agevolando la comunicazione e il dialogo, riduce sensibilmente la conflittualità, rendendo il lavoro più pacifico e produttivo; è in un certo senso un “lubrificante relazionale”
§  Valvola di sicurezza: in situazioni stressanti o ansiogene una risata consente alle persone presenti di scaricare la tensione, di ritagliarsi una piacevole pausa emotiva, di rendere meno pesante e faticoso il lavoro, l’attesa, ecc. La mancanza dell’umorismo porta a percepire gli eventi, e più in generale la realtà lavorativa, in una cornice di riferimento rigida e limitata, con scarse possibilità di cambiamento. Nel cogliere i tratti umoristici, invece, la persona riesce ad «allontanarsi» per un momento dalla realtà e ha la possibilità di sdrammatizzare, di fare auto-ironia. Es. ridendo di una situazione che gli appariva «drammatica», esce dalla rigidità mentale e dalla “fissazione”, ha così più probabilità di sperimentare prospettive nuove e possibilità di evoluzione.
§  Sistema di sovralimentazione : una risata profonda favorisce, com’è noto, la circolazione sanguigna, aumenta l’apporto di ossigeno al cervello, e questo contribuisce a facilitare l’apprendimento e la memorizzazione. Un ambiente piacevole e spiritoso, poi, agevola il pensiero divergente, la creatività e la produzione di nuove idee. Conseguentemente i concetti presentati in un contesto mentale divertente, inoltre, vengono ricordati meglio e più a lungo;
Anche nell’ambito lavorativo, in conclusione, l’impiego dell’umorismo apre nuove ed interessanti prospettive, crea un clima piacevole e sereno, riduce la conflittualità, agevola l’apprendimento e l’innovazione, permette di individuare stimoli divertenti dove altri vedono solo problemi.

Paolo Vendramini

In due si fa per tre!

Proverbio che molti conoscono, ma su cui noto sovente, non riflettiamo abbastanza.
E’ effettivamente una frase semplice quasi scontata…

Ma anche un’affermazione tanto vera quanto profonda.
Implicito in questo messaggio c’è un significato che, a mio giudizio, sta alla base del successo di un team.
Sin dai tempi dell’università, la sentivo vera, profonda, ricca di significati che non riuscivo a cogliere totalmente…
Poi, esperienza dopo esperienza, lavoro dopo lavoro, ho cominciato ha darle significato.
Questo significato è ciò che oggi vorrei condividere con voi.

Se pensiamo ad una coppia di persone che condividono le stesse intenzioni, possiamo immaginare da dove esce questo “plus valore” e riassumerlo nei 5 punti seguenti:
buona condivisione dei valori totale condivisione delle speranze condivisione delle fatiche sempre visibile reciprocamente facile scambio di informazioni e sensazioni e della conseguente rielaborazione della strategia iniziale per riassumere una quasi totale consapevolezza condivisa dell’obbiettivo.
Due persone che si adoperano per raggiungere un obiettivo comune spesso condividono più o meno consapevolmente i 5 punti appena descritti e quindi possono, collaborando in maniera “spontaneamente sincronizzata”, ottenere quell’ “effetto moltiplicatore” che da come risultato un’efficienza paragonabile a quella che, in situazioni normali cioè meno “sincronizzate” si ottiene dal lavoro di 3 persone.  

Probabilmente quanto sopra descritto si è verificato un numero sufficiente di volte, tanto che nel tempo ha dato origine al famoso detto appunto…

Ma perché proprio “in 2 si fa per 3” piuttosto che in 4 si fa per 6 o magari in 8 si fa per 12?
Questo è il dilemma!
Perché questo “effetto moltiplicatore” sembra difficile da estendere a gruppi maggiori di 2 persone? certamente la risposta sembra scontata, se non altro dal punto di vista statistico sembra difficile condividere i 5 presupposti di qui sopra in più di 2 persone…

A me piace pensare che qualche rara volta è successo, e le imprese di “squadre vincenti” divengono poi famose proprio perché rare e perché quando il risultato di 4-7 persone è paragonabile a quello di 6-10 elementi lascia tutti di stucco!  
Se qualcuno di voi ha letto il romanzo storico “La notte dell’aquila” di Jeck Higgins, potrà avere una discreta percezione di quanto potrebbe fare un team che condivide i 5 punti…

D’altronde se potessimo con calma riguardarci “il film” di ogni esperienza di gruppo passata, positiva o negativa che sia, potremmo rivedere i momenti in cui abbiamo raggiunto o meno “l’effetto moltiplicatore”.

Un “effetto moltiplicatore” lasciato al caso, è la realtà che quotidianamente viviamo negli uffici, nelle strutture organizzative e nelle imprese.


Lavorando per migliorare la qualità della vita lavorativa delle persone, accade che almeno 7 volte su 10, consapevolezza e e fiducia su questo proverbio antico sembrano venire meno di fronte alle difficoltà. 
Quando invece, l’effetto moltiplicatore accade, quasi magicamente…
Lascia in ogni componente del team un ricordo, una traccia che attende solo di essere ripercorsa.

Questo è ciò che si può definire capacità di crescere per migliorare le nostre “abilità sociali”.
Un saluto Paolo Vendramini.

Essere leader di ieri e di oggi

Spesso nel la pratica del coaching mi trovo a stretto contatto con persone che hanno la funzione di leader in azienda o settori d’azienda.

L ‘affrontare temi simili con queste persone mi ha spinto a scrivere questa news sul tema della leader per rissumere alcuni concetti base che tentano di rispondere alla domanda seguente:

IN COSA SI DISTINGIE UNA LEADERSHIP EFFICACE ?


Da sempre la figura del “leader carismatico” è avvolta da un fascino particolare che potremmo dire, con un certo “accento poetico”: racchiude in se molte delle caratteristiche desiderabili associate allo stereotipo dell’essere umano di sesso maschile.
In questa news affronteremo questo tema cercando di focalizzare quali sono le caratteristiche comuni e non,tra un condottiero dell’era pre-cristiana e un manager dei nostri tempi.
In fondo se ci pensiamo un istante possiamo riconoscere in entrambe le figure dei fini simili nel senso che, entrambe sono destinati a guidare gruppi di persone più o meno grandi coordinandoli verso il raggiungimento di un obbiettivo …

STEREOTIPI E REALTA’

E’ indubbio che un vero leader si distingue velocemente in azienda, il modo in cui saluta, la camminata, lo stile nel coinvolgere le persone quando comunica, la positività e fiducia che trasmette… tutte peculiarità che
hanno un denominatore comune: Una forte motivazione interiore.

Spesso le persone che conoscono o che frequentano leader di successo, chiamate ad esprimersi a riguardo, riflettono l’opinione comune che: “la leadership sia una qualità innata di alcune persone”, basata cioè su una serie di caratteristiche umane e di personalità (ad esempio, aspetto fisico, intelligenza, fascino, naturali doti di comunicazione, ecc.) e certamente è innegabile che ciò che rende “unico” ogni leader sia quell’insieme di doti personali che ne formano il carisma peculiare.

GLI STUDI

D’altra parte studi sulla leadership dimostrano che tutti i leader efficaci hanno comportamenti complessi, caratterizzati da competenze apprese e da valori e atteggiamenti sviluppati, piuttosto che unicamente, una serie di doti naturali di personalità.

Queste competenze possono essere più o meno “istintive” e certamente, per essere efficaci devono essere espresse in maniera spontanea senza “costruzioni” o “forzature” che ne minerebbero inesorabilmente i risultati.

Ma è forse a causa della quantità di aspetti comportamentali che devono coesistere assolutamente, che in passato si riteneva che “leader si nasce!”.

Elenchiamo qui di seguito un’insieme di atteggiamenti e comportamenti (per nulla esaustivi) che appaiono come indispensabili proprio perché riconosciuti in dalle ricerche nel comportamento di tutti i leader studiati.

Per chiarezza divideremo questo insieme di doti/atteggiamenti manifeste, in 3 categorie ognuna delle quali riferita ad uno dei seguenti elementi:

A) Valoriale
B) Razionale Operativo
C) Energetico / motivazionale

A > Fanno parte delle caratteristiche valoriali tipiche i seguenti atteggiamenti:

Sa mettersi in discussione quando serve cambiando pensiero / strategia anche in maniera evidente se necessario; accetta quindi eventuali sconfitte, (sapendo dimostrare di aver utilizzato al meglio ogni risorsa a disposizione) o insuccessi e li utilizza per analizzarne le cause attivando automaticamente un processo virtuoso di auto/miglioramento.

· Esprime una tenacia nel perseguire la meta a lungo termine che sotto molti aspetti va oltre le convenienze e la logica del breve termine. Dimostra così lungimiranza, fede profonda nei propri principi, coerenza.

· Possiede ed esercita un autentico senso della giustizia, giudica con equità sapendo che lui stesso è costantemente valutato in maniera severa dal gruppo di cui è guida.
· Abile comunicatore sa riportare la questione sul piano condiviso, talvolta un contrasto sul piano pratico può essere risolto spostando la questione ad un livello più elevato, sul piano dei valori…

Volendo sintetizzare le doti valoriali, potremmo dire che il leader deve guadagnarsi la fiducia e la stima personale ogni giorno dai propri collaboratori, che lo vogliono vedere come una figura al di sopra delle parti, su cui sano di poter contare e dal quale sanno verranno giudicati con rettitudine.

B > Fanno parte delle caratteristiche razionali e dello stile operativo:

· È fortemente motivato verso gli obiettivi.
· Alcuni obiettivi sono chiaramente esplicitati e convergenti, vengono spesso trasferiti in programmi ben definiti che facilitano l’auto-motivazione dei collaboratori,
quest’ultimi a loro volta, vengono fatti partecipi se non nella stesura, quantomeno nella messa a fuoco degli obiettivi, grazie a momenti d’incontro in cui il piano della
discussione è inequivocabilmente paritetico e aperto ai contributi critici dei collaboratori.

· Sa mettere in relazione la mission ad ogni obbiettivo, sa cioè mostrare costantemente agli altri quanto sono “vicini o distanti alla meta” mettendola in relazione alla vision aziendale.

In altre parole: “non perde mai la bussola!” ed è in grado di orientare i collaboratori collegando obiettivi, responsabilità e metodo.
· Può dimostrare di saper fare più di quanto non sia il proprio compito, in altre parole ha competenze molto più ampie di quanto richieda il proprio/i ruolo/i.
· Dimostra con i fatti un costante senso di responsabilità nei confronti del proprio ruolo.

Anche le doti professionali del leader possono essere riassunte nello stereotipo del “buon capitano” che sa guidare il team nel mare degli eventi, senza perdere la bussola, ma anticipando in tempi adotta sempre la vela giusta mettendo le persone a proprio agio nei rispettivi ruoli.

C > Sono parte delle caratteristiche personali legate all’energia personale e quindi al carisma:

· è attento all’empatia nel gruppo, sa cioè innescare e controllare meccanismi di pausa condivisione e feed-beck, in grado di gestire i ritmi di lavoro per
permettere ad ogni componente di trasferire pienamente il suo contributo con i propri tempi.

· Dedica tempo al gruppo, è consapevole dell’importanza / necessità di dedicare attenzioni ad ogni componente del gruppo, “iniettando fiducia” li dove serve, chiarendo situazioni ambigue ed eventuali fraintendimenti.
· È in grado di influenzare il morale della squadra, è un ragionevole ottimista! sa che l’affiatamento del team dipende molto da lui…
· Sa instaurare rapporti personali, trovando tempo e occasione per alimentare un rapporto individuale con ogni singolo membro del suo gruppo. In fondo ogni buon collaboratore desidera vivere un rapporto personale con il leader.

Riassumere le doti empatiche e carismatiche del leader significa anche ampliarne gli orizzonti, il leader non è solo un insieme di caratteristiche espresse, è prima di tutto una persona e come tale deve saper utilizzare le leve emotive in maniera istintiva, valorizzando il singolo che sa assumersi responsabilità, stimolando i creativi caricandone l’entusiasmo e dando in fine direzione e metodo a chi, per natura o ruolo, è meno autonomo del proprio agire in azienda.

Concludendo, da quanto emerge dagli studi di psicologia e sociologia del lavoro, effettivamente non tutti possono fare il leader… ma certamente tutti i leader possono migliorare se stessi, innanzitutto aumentando la consapevolezza sulle proprie doti e le proprie “aree deboli”. Una volta coscienti di se stessi, potranno decidere di investire nell’auto miglioramento attraverso i tempi e i metodi che più si adattano alle loro esigenze e aspettative.

Paolo Vendramini

Il nuovo libro del collega Maurizio Duse

E’ con un certo orgoglio che annuncio che il collega Mauriuzio Duse ha scritto un nuovo libro, pubblicato da Franco Angeli, intitolato :Il CRM strategico. Come migliorare la competitività aziendale fidelizzando e centralizzando il cliente.
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Testimonianza di Successo

Mi chiamo Marco, ho 37 anni e svolgo una professione di continua relazione con le persone.

Ho sempre pensato che la formazione sia un passo fondamentale per migliorarsi sia come professionisti che come persone, per questo motivo ho deciso di intraprendere un percorso di coaching.

Il coaching mi ha aiutato moltissimo a prendere consapevolezza delle mie caratteristiche, e di come spesso si fanno delle scelte senza prima essersi confrontati con le proprie caratteristiche “naturali”.

Ricordo con estrema chiarezza che durante le primissime sedute mi ero posto come obiettivo di focalizzarmi maggiormente sulla clientela più importante tralasciando quella minoritaria, focalizzando cioè il mio tempo sui risultati anziché sulla relazione.

Questa chiave di lettura, rivista attraverso il percorso di crescita svolto, mi ha reso consapevole che, al contrario di quanto credevo, era proprio la relazione il punto su cui investire e non il contrario.

Oggi, grazie a questa presa di coscienza, sono perfettamente in linea con i miei obiettivi aziendali nonostante l’anno in corso sia estremamente difficile.

Consiglierei a tutti un percorso di questo tipo, anche, o meglio, se extralavorativo. Confrontarsi con le proprie debolezze, rendersi consapevoli delle proprie caratteristiche positive, sono passi fondamentali nella crescita diun individuo a mio parere.

Marco